Poeta italiano. Visse i suoi primi anni a Castagneto e a
Bolgheri, in Maremma. Studiò a Firenze presso gli Scolopi, passò
poi alla Scuola Normale di Pisa e vi si laureò in Filosofia e Lettere nel
1856. Ebbe vita assai dura, date le infelici condizioni economiche della sua
famiglia; il suicidio del fratello Dante nel 1857 e la morte del padre,
sopraggiunta subito dopo, lo costrinsero a provvedere al mantenimento dei suoi
con un duro e snervante lavoro di professore, editore e commentatore di testi.
Nel 1860 il ministro Terenzio Mamiani lo chiamò alla cattedra di
Eloquenza dell'università di Bologna, dove rimase fino al 1904. Nel 1890
fu nominato senatore e nel 1906 gli venne conferito il premio Nobel per la
letteratura. Morì a Bologna, poco dopo aver ricevuto l'ambito
riconoscimento. La prima formazione di
C. è tutta libresca,
contenuta in limiti angusti e provinciali, soprattutto se paragonata con le
precedenti esperienze di Foscolo, Manzoni e Leopardi, che si erano arricchiti di
un patrimonio culturale vasto e aperto, in una libera e mutua assimilazione di
motivi ideali e morali validi sul piano internazionale ed europeo. Il
C.,
in un primo tempo, si fece paladino dei
classici, in contrapposizione ai
romantici, intendendo schierarsi dalla parte della tradizione letteraria
italiana contro il romanticismo, che egli dichiarava teoria forestiera.
Maledicendo il secolo in cui era nato, proclamava la sua ammirazione per la
poesia italiana e la sua incondizionata adesione a temi e schemi di questa.
Nella prolusione pronunciata nel 1860 all'università di Bologna,
additò i maestri sulle cui orme si sarebbe compiuto il rinnovamento
letterario d'Italia; essi erano Monti, Botta, Giordani, Colletta, mentre ne
veniva escluso Manzoni. Il suo primo libro di versi,
Juvenilia (1850-60),
è perfettamente in armonia con tali sue convinzioni. Si avverte in esso
un lungo lavoro artigianale nella composizione del verso, ma difettano la
spontaneità dell'ispirazione e il vigore della materia. Solo con la
lettura degli storici francesi (Michelet, Quinet, Blanc, Proudhon), il
C.
allargherà il campo della propria cultura, mentre con l'assimilazione di
motivi e forme della poesia straniera (Hugo, Shelley, Platen) la sua voce
poetica si eleverà di tono. Egli rimarrà sempre, è vero, il
rappresentante tipico del letterato italiano, però si avvierà
verso orizzonti più aperti, raggiungendo il momento più alto e
più vero della sua poesia. È il periodo dei
Levia Gravia
(1861-71) e, soprattutto, dell'
Inno a Satana (1863) e dei
Giambi ed
Epodi (1867-79), in cui esprime il proprio violento giacobinismo. In
seguito, il suo linguaggio poetico si fece più pacato e personale,
tormentato e libero dalle imitazioni e dai pregiudizi letterari. Così, il
suo canto si innalza alto ed equilibrato nelle
Rime nuove (1861-87) e in
molte delle
Odi barbare (1877-89). Appartengono a questo momento i suoi
versi più significativi e famosi:
Idillio maremmano,
Davanti
San Guido,
Faida di Comune,
Comune rustico,
Canzone di
Legnano e i sonetti del
Ça ira. La bellezza di questi versi
consiste nella forza incisiva per cui i motivi del canto si traducono in precise
immagini e sentite rievocazioni. Successivamente ebbe inizio la parabola
discendente della sua poesia, che coincise esattamente con un processo
involutivo delle idee politiche e civili del poeta.
C., che in un primo
tempo aveva a modello di virtù civica gli eroi un po' stereotipati del
Metastasio, seguendo in ciò la buona tradizione letteraria e
nazionalistica, si avvicinò in un secondo momento alle forze vive del
rivoluzionarismo, incarnate dalla parte migliore della borghesia intellettuale
del tempo. È questo il periodo, come si è detto, della sua
produzione migliore. In seguito, deluso anche dallo sviluppo della vita sociale
e politica nel nostro Paese, il
C., come tanti altri uomini della
sinistra garibaldina e mazziniana, tornò ad avvicinarsi alla monarchia
sabauda, avviandosi a divenire il poeta laureato, ufficiale, interprete del
pensiero politico e dello spirito della borghesia moderata a lui contemporanea.
Nel momento stesso della sua ascesa agli occhi dell'opinione pubblica e del suo
innalzamento al ruolo di poeta nazionale, esaltato e venerato dall'Italia
umbertina, la sua vena poetica si andò isterilendo; gli alessandrinismi e
i preziosismi servirono a mascherare, quando non soffocarono, l'ispirazione.
L'artista, come già si è osservato, ebbe il sopravvento sul poeta.
Nell'ode
Alle fonti del Clitumno, il senso dell'attualità dei
motivi polemici è assai attutito e quasi smarrito, sopraffatto
dall'eloquenza splendida che apre la strada ai virtuosismi verbali, meravigliosi
ma caduchi, caratteristici dell'età dannunziana. Lo stesso discorso vale,
in parte, anche per la produzione in prosa di
C., ma non gli rende del
tutto giustizia perché, pur non avendo le basi di estetica e l'ampiezza
di vedute di un De Sanctis, la sua opera come critico presenta alcuni aspetti
notevoli. L'amore per la notizia precisa, per il fatto e la data, il gusto
sicuro del letterato e l'intuizione, spesso facile, dell'artista rendono
importanti e, in alcuni casi, preziose le sue osservazioni. I commenti alle
Stanze di Poliziano, alle
Rime di Petrarca e infiniti altri saggi
sui più svariati argomenti della nostra storia letteraria, a partire
dalle origini, fanno sì che la sua opera di critico e di storico abbia
tuttora un valore e un interesse più alti di quanto non abbia voluto
riconoscere certa critica estetizzante ed ermetizzante (Valdicastello 1835 -
Bologna 1907).
Il poeta Giosué Carducci